Costruire la pace, operare la giustizia

L’attacco della Russia all’Ucraina è un sasso lanciato nello stagno delle coscienze occidentali. Nel mondo ci sono sempre stati conflitti armati e purtroppo non mancheranno nel futuro. La guerra in Ucraina è “un po’ più vicina” rispetto ad altre, ha una portata certamente più dirompente rispetto ad altre ma non possiamo scordare che ad oggi, settanta Stati sono coinvolti in conflitti su circa novecento scenari armati.

La guerra fa schifo. Ovunque. Sempre. L’inerme paga sempre il prezzo più alto della violenza. La distruzione porta a lunghissimi periodi di fatiche enormi per tornare al benessere di prima, che era meglio non perdere. La guerra è follia.

Ma fa anche ribrezzo quel pacifismo di facciata, che giustamente si indigna per quanto vede alla TV ma che evapora alla prima riunione di condominio, alla fila allo sportello delle Poste, quando qualcuno osa contraddire il nostro sommo punto di vista.

Fa paura perché è astratto, non si riesce da solo a declinare in una condizione e in un luogo precisi: in questo senso è letteralmente utopico. E tutto ciò che è astratto tende a semplificare troppo, a buttarla sempre sul tifo del “pro” e del “contro” e, in definitiva, a dimenticare l’essenza della natura umana.

Che non è, come dall’Illuminismo in poi siamo stati formati a credere, buona per natura ma è una miscela di slanci verso il bene e di altrettante ombre attratte dal suo opposto.

Per costruire la pace è necessaria l’accettazione della dualità, dell’alterità. Se volessimo rifrasarlo in termini comuni agli ambienti di pratica marziale, si può superare la dualità solo se non la si nega.

Questo significa ricercare sempre e costantemente la grammatica della relazione, che necessariamente deve includere la grammatica del conflitto (inteso per quello che è: trovarsi a gestire lo scontro tra due traiettorie incidenti).

L’atto del dialogare, in sé, può anche rafforzare la violenza che vorrebbe risolvere. L’esercizio di un meccanismo democratico, come per esempio un referendum, può di per sé non significare assolutamente nulla dal punto di vista della mediazione tra posizioni.

La Storia è piena di dialoghi formalmente ineccepibili che in realtà hanno portato sempre più guerra. La Storia non si ferma agli accordi di Monaco; la Storia, inevitabilmente, si ripete.

Certo, l’azione non violenta, la testimonianza di resistenza non armata, ha avuto forte impatto nel modificare alcuni tratti della Storia dell’umanità.

Tuttavia, sempre e ovunque, la costruzione della Pace ha sempre avuto chiaro l’obiettivo di denunciare l’ingiustizia, di rifiutare l’indifferenza, di superare la paura di esporsi al rischio delle conseguenze e di avere come destinatari i diritti fondamentali di ogni essere umano.

Quindi le categorie del tu e dell’io, del vero e del falso, del giusto e dello sbagliato, del lecito e dell’illecito, della morale e dell’etica, per quanto scomode, non possono essere ignorate.

Anzi, non possono trovare una collocazione al di fuori dell’essere umano, pensando che la radice dei problemi sia sempre in una generica nuvola sistemica: l’ “economia”, i “governi”, la “politica”… E’ sempre “colpa” di un qualcosa di indistinto là fuori.

Invece, se l’obiettivo è costruire la pace, è ovvio che il lavoro non possa che partire dentro la singola persona. Nella fatica quotidiana di accettare la frustrazione di non avere sempre una chiara definizione del proprio “io” e il coraggio di andare oltre le etichette appiccicate al “tu”. Gettando un po’ di luce sulle ombre personali, che svicolano di fronte alla presenza della verità . Comprendendo che le abitudini collettive formano a tendere un’etica personale e quindi sociale, a cui ciascuno darà inevitabilmente un valore morale. Personale e dunque sociale.

Ripartire dal lavoro su di sé, attraverso la relazione con un compagno di pratica può cambiare il destino delle guerre in corso?

No.

Può restituire un elemento di realtà, innanzitutto. Toccare e farsi toccare da persone fatte di carne ed ossa che si muovono per eseguire una tecnica ma che dentro quella portano tutto il loro mondo emotivo e valoriale, ti fa capire che la responsabilità dell’uso della forza e dell’azione è solitamente poco o affatto allenata.

Che ne esiste un uso giusto e uno non costruttivo e che questa distinzione si apprende a livello mentale ma si comprende spesso a livello fisico, in cui la “sanzione” è un dolore spesso autoinflitto dall’errata applicazione di un principio.

Che migliorare collettivamente si può se si accetta l’impegno di migliorare personalmente.

E che rialzarsi col sorriso dopo una tecnica è una scelta che si fa in due.

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